Se la passione per l’etimologia fosse più diffusa, forse ci sarebbero molte meno persone che aspirano a diventare un leader.
Il termine leader deriva infatti dalla radice indoeuropea leit, che significa colui che va avanti e che per primo oltrepassa la soglia della morte.
Il leader è un esploratore
L’etimologia ci dice che il leader non ha paura dell’ignoto: essere un leader significa prendere l’iniziativa di esplorare terreni poco conosciuti.
Non a caso, la capacità di convivere con l’incertezza accomuna tutti gli eroi, mitologici o realmente esistiti, da Ulisse a Garibaldi e a Harry Potter. Ed è di questo che parla Mario Calabresi, direttore de La Stampa, nella sua risposta alla lettera di una tredicenne.
Per costruire il futuro bisogna osare […], bisogna avere coraggio, passione e creatività. Non possiamo farci paralizzare dalla paura, passare il nostro tempo a rimpiangere il passato e a ripetere gli stessi comportamenti.
In realtà, nella routine quotidiana capita spesso di utilizzare strategie che, pur se efficaci in passato, non sono più applicabili in un ambiente che è radicalmente cambiato. Più si accumula esperienza e più diventa difficile abbandonare le strade conosciute per incamminarsi su sentieri nuovi e poco battuti.
L’esempio dei grandi leader ci dimostra comunque che intraprendere nuovi percorsi è possibile a qualunque età…
Non è mai troppo tardi per adottare una nuova strategia: Noè iniziò a costruire l'Arca quando aveva già 600 anni Condividi il TweetIl leader costruisce possibilità
Nel 1979, la psicologa Ellen Langer dell’università di Harvard, ideò un esperimento che divenne successivamente noto come “Counterclockwise” (“In senso antiorario”). Alcuni ottantenni trascorsero una settimana in un vecchio monastero del New Hampshire, dove tutto era stato riportato indietro di 20 anni. Arredamento, giornali, fotografie, programmi televisivi e radiofonici: tutto era stato riportato al 1959. I partecipanti furono invitati a vivere le loro giornate al tempo presente, discutendo del ‘recente’ lancio del primo satellite americano o dell’avanzata di Fidel Castro a Cuba. Inoltre, al gruppo venne richiesta molta più autonomia nella gestione delle attività quotidiane, dato che a questo punto erano ritornati ad essere dei ‘sessantenni’.
Alla fine della settimana tutti i partecipanti dimostrarono un significativo miglioramento di parametri quali peso, altezza, lunghezza delle dita, flessibilità articolare, destrezza manuale, postura, passo e risultati dei test di intelligenza. Anche le foto scattate alla fine della settimana, mostrate a osservatori estranei all’esperimento, vennero valutate come riferite a persone più giovani rispetto a quelle scattate solo pochi giorni prima.
La professoressa Langer è una convinta sostenitrice della psicologia della possibilità: poiché sono le nostre aspettative a determinare i risultati che otteniamo (nell’esperimento si trattava di quelle riferite alla nostra vecchiaia), la sfida che lei propone è quella di non accettare le conoscenze assodate ma di investigare invece l’ambito di quello che potrebbe essere.
Ed è proprio questa fiducia nel campo del possibile che motiva il leader a intraprendere i suoi viaggi di esplorazione (e l’esperimento stesso di Ellen Langer è un’audace escursione nell’ambito delle possibilità).
Il leader è una persona d’azione
Per un leader, esplorare significa trasformare l’idea in azione: questo avviene attraverso un’attività di sperimentazione che permettere di verificare nella pratica se un’idea è veramente in grado di funzionare.
Don Bennet, il primo amputato a scalare i 4392 metri del monte Rainier, racconta così di come ha dato avvio alla prima lega calcio amputati:
Dopo essere sceso dalla montagna ero in grande forma. Il miglior stato di forma che avessi mai sperimentato in vita mia. E così d’un tratto, sull’onda dell’esperienza positiva, la mia mente inizia a pensare: “Cosa posso fare per mantenermi in forma?” Da dove arrivava questa idea? Penso che sia comparsa come un lampo di luce nel mezzo della notte. Tutto quello che avevo era un’ispirazione. Non sapevo un granché di calcio. Non sapevo neanche che esistessero due misure di pallone…
Così il passo successivo all’ispirazione è “vai fuori e inizia a fare qualcosa”. La parte del fare consiste nel sollevare il telefono e chiamare alcuni amici dicendo: “Perché non ci troviamo a Mercer Island? Ho avuto un’idea. Sento che è importante”. Così, quando arrivano, io tiro fuori un pallone da calcio. Loro hanno già le loro grucce e iniziamo a dare calci al pallone…
Poi le cose iniziano a succedere…
(in Kouzes e Posner, mia traduzione)
I risultati più tangibili spesso arrivano quando la motivazione a costruire qualcosa di possibile è tanto forte da spingerci a provare l’idea sul campo, accettando il rischio di mostrare al mondo qualcosa che è ancora ben lungi dall’essere perfetto.
Il leader pratica il kaizen
Kaizen significa letteralmente ‘cambiamento buono’. Infatti, i due ideogrammi che compongono la parola kaizen significano ‘fustigare se stessi e offrire un sacrificio’: praticare il kaizen vuol dire agire su stessi (cambiare) per ottenere un risultato che è buono per noi stessi e per gli altri.
Lo spirito kaizen si manifesta nei piccoli cambiamenti quotidiani, che sommandosi in maniera cumulativa producono una vera e propria trasformazione. È l’approccio dei genitori che, con piccoli e persistenti insegnamenti quotidiani, aiutano il bambino a diventare sempre più autonomo: imparare a camminare e a parlare sono esempi di apprendimenti kaizen.
Pur essendo implicito in tutti i cambiamenti del mondo naturale, il concetto di kaizen risulta ostico al modo di pensare degli esseri umani, che sembrano preferirgli quello di cambiamento radicale. È infatti tipico immaginare il cambiamento in modo drastico: ne sono esempio i proponimenti di inizio anno, le riorganizzazioni aziendali o l’introduzione di nuovi metodi e strumenti di lavoro. Eppure, la storia dimostra che laddove molte rivoluzioni sono destinate al fallimento, sono spesso i piccoli cambiamenti che conducono alle grandi trasformazioni.
Anche il viaggio più lungo comincia con il primo passo!
Il leader pianifica il fallimento
Qualunque sia la strada su cui stai camminando, inevitabilmente troverai degli ostacoli che potranno rallentare o addirittura arrestare il tuo incedere. Potrebbe trattarsi di una ripida salita, di una frana, del tempo inclemente o del sopraggiungere del buio; a volte, per superare una situazione di stallo, ti sarà necessario ritornare sui tuoi passi e cercare un percorso alternativo. Sono proprio le situazioni difficili, quelle in cui le tue capacità sono messe a dura prova, che permettono alla leadership di manifestarsi.
A questo proposito, nel 2010 ho assistito a una presentazione di David Hillson in cui successo e fallimento vengono presentati come opposti complementari, ben rappresentati dal concetto orientale di equilibrio tra ying e yang. L’autore suggerisce che, essendo l’esperienza del fallimento assolutamente naturale, a caratterizzare le persone di successo è soprattutto il modo in cui queste rispondono ai fallimenti.
David propone una modalità di gestione dei fallimenti basata su 3 dimensioni (le 3M):
- Mindset: poiché il fallimento è un’esperienza naturale è opportuno metterlo in preventivo, accettandolo quando si verifica ed essendo disponibili a persistere e a non arrendersi al primo fallimento. Ovviamente bisogna anche essere in grado di capire quando l’impresa non ha alcuna possibilità di successo. In generale, si tratta di un modo di pensare che può essere sintetizzato come ottimismo realistico.
- Minimizzare il numero di fallimenti: per quanto utile e inevitabile, un fallimento è sempre spiacevole. Per ridurre le esperienze negative, si possono utilizzare i metodi e gli strumenti del risk management, il cui obiettivo è minimizzare le minacce e massimizzare le opportunità, ottimizzando le probabilità di successo.
- Massimizzare il valore del fallimento: si tratta essenzialmente di apprendere quanto più possibile da insuccessi ed errori. Lo strumento d’elezione in questo caso è rappresentato dalle lezioni imparate, in cui ci si ferma a riflettere su che che cosa ha funzionato bene e che cosa invece si sarebbe potuto far meglio.
L’apprendimento passa necessariamente attraverso una serie di tentativi ed errori: diventare un leader significa esserne consapevoli e gestire questo processo attraverso un approccio di successo al fallimento.
Il leader si riconosce dalle domande che pone
Un leader si focalizza sulle domande giuste.
Le domande giuste riguardano i valori, il fine, l’estetica, l’affinità con altri esseri umani, e la più profonda indagine filosofica. Per sperimentare la pienezza della vita e del lavoro, dobbiamo essere disposti a porci le domande che sappiamo non avere risposta […] La sfida è rendersi conto che, solo perché qualcosa funziona, non significa che esso sia importante.
(in Peter Block: The Answer to How is Yes, mia traduzione)
Peter Block ci invita a postporre le domande di metodo, che tendono solo a verificare la fattibilità di un’idea: Come pensi di fare? Quanto tempo ci vorrà? Quanto costerà? Come convincerai le persone a cambiare? Come lo misurerai? Come hanno fatto gli altri?
Si tratta di domande importanti, che debbono sicuramente essere poste, ma solo dopo aver capito che cosa è veramente importante per te!
Come diventare un leader
Da quanto detto in precedenza, seguono le 7 regole d’oro che costituiscono il mantra di ogni vero leader, in ordine decrescente di difficoltà.
- Chiediti che cosa è veramente importante per te. Non si tratta tanto di rispondere alla domanda che da millenni angustia le migliori menti della nostra specie, quanto di investire un po’ del tuo tempo per cercare di capire che cos’è che ti appassiona veramente. Devi infatti scoprire ciò che è in grado di motivarti anche quando incapperai negli inevitabili fallimenti (vedi al punto 5 – quindi relativamente semplice da gestire).
- Decidi di osare. Devi metterci la faccia: se tu stesso non sei disposto a rischiare (soldi, tempo, reputazione), significa che non hai riflettuto a sufficienza sul punto 1 (indubbiamente il più difficile della lista).
- Costruisci le tue possibilità. Pianifica quello che potrebbe essere, così da fare in modo che si avveri. Utilizza un semplice metodo di pianificazione per aumentare le tue probabilità di successo.
- Inizia a sperimentare. Metti subito in pratica l’idea: traducila immediatamente in azione e tocca con mano la sua appetibilità e fattibilità. Utilizza metodi e strumenti agili.
- Pianifica la gestione dei fallimenti. Il tuo piano di progetto deve sempre includere una strategia per far fruttare al meglio gli inevitabili fallimenti.
- Pratica il kaizen. Individua alcune attività che creano valore (diciamo il 20%), e inizia il tuo percorso di cambiamento partendo da quelle. I passi successivi seguiranno in modo naturale.
- Segui la Via del Leader, la newsletter di management dojo dedicata all’esplorazione dei territori di confine (senza dubbio il punto più facile della lista).
Iscriviti alla newsletter e inizia subito a percorrere la Via del Leader!
Letture laterali
Consigli per trovare ispirazione e spunti di riflessione, attraverso letture solo apparentemente lontane dal contenuto dell’articolo.
Mark Rowlands: Il lupo e il filosofo
Quando parlo di leadership, utilizzo spesso l’immagine del lupo: per me rappresenta infatti l’archetipo dell’esploratore che, da solo o in un branco perfettamente coordinato, percorre distanze enormi per soddisfare la sua fame di cibo, amore e avventura.
Ho letto questo libro pensando di trovare una serie di curiosi aneddoti sulla strana convivenza tra un lupo e un giovane professore. Ho invece scoperto un libro di filosofia, che ho apprezzato proprio per il tipo di domande che pone.
Vale la pena notare che la capacità di fare le domande giuste non è la sola caratteristica che lascia intuire che l’autore è indubbiamente un leader. Rowlands è infatti un esploratore, che da per scontata la possibilità di allevare un lupo, prendendolo con sé immediatamente dopo averlo visto, gestendo i fallimenti quotidiani come essenziali tasselli per costruire la sua relazione con un animale che ammira. Un progetto di indiscutibile successo se, qualche anno dopo l’inevitabile conclusione dell’esperienza, Rowlands ha deciso di chiamare il proprio figlio con lo stesso nome di quello che definisce suo fratello lupo: Brenin (‘re’ in gallese).
Un esempio dello stile del libro è fornito dalla domanda che, da semplice proprietario di un cane, anch’io mi sono spesso posto.
Brenin era uno schiavo? Era uno schiavo perché io avevo stabilito i parametri della sua educazione, determinando così i contorni del suo agire futuro? Sette anni di scuola secondaria unificata, seguiti da tre anni all’università di Manchester e da due a quella di Oxford – anni in cui i parametri della mia educazione sono stati senza dubbio stabiliti da altri – hanno fatto di me uno schiavo? Se Brenin è stato uno schiavo, allora lo sono stato anch’io. Ma se è così, che cosa significa la parola ‘schiavo’? Se tutti noi siamo schiavi, chi è il padrone? E se non c’è un padrone, allora chi è lo schiavo?
E, per inciso, ci sono anche gli aneddoti, come quando l’autore portava Brenin a lezione, dove esso ululava nei momenti più noiosi, con grande soddisfazione degli studenti. Per diventare un leader, Brenin non ha avuto bisogno di studiare sui libri!
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