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Il mito del team building

29 aprile 2014 by Luciano Garagna Lascia un commento

Nel linguaggio delle organizzazioni, il termine team building è uno dei più utilizzati e allo stesso tempo dei più fraintesi. La confusione ha probabilmente origine nel modo in cui viene inteso il concetto di team.

Che cos’è un team?

Katzenbach e Smith forniscono una definizione particolarmente chiara e sintetica: un team è un’unità costituita da poche persone con competenze complementari, che sono impegnate a raggiungere un fine comune, identificato attraverso chiari obiettivi prestazionali, utilizzando un approccio per il quale si considerano l’un l’altro reciprocamente responsabili.

Con che tipo di team lavori?

Katzenbach e Smith descrivono un percorso evolutivo che, nel raro caso in cui venga completato, attraversa 5 stadi. In realtà la maggior parte dei gruppi di lavoro si ferma al secondo o al terzo stadio.team performance curve

  1. Working group: si tratta di un gruppo di lavoro che, poiché le sfide prestazionali non richiedono uno sforzo aggiuntivo, non ha la necessità di diventare un team. I membri si scambiano informazioni, idee e consigli ma non si identificano con un obiettivo comune che possa essere centrato solo attraverso uno sforzo condiviso, che richieda ai singoli membri di considerarsi reciprocamente responsabili. Non c’è niente di male a far parte di un gruppo di lavoro, anzi in molte situazioni si tratta del tipo di organizzazione più efficiente (si pensi ad esempio ad uno studio associato). Caratteristica fondamentale di questo tipo di organizzazione è che ciascun componente è responsabile solo per il raggiungimento di specifici obiettivi individuali.
  2. Pseudo-team: è un gruppo di lavoro che si presenta all’esterno come team ma che, pur in presenza dell’opportunità di impegnarsi verso un obiettivo comune, non è focalizzato su indicatori prestazionali collettivi. In sostanza, anche se pubblicamente dichiara di di impegnarsi per il fine comune, ogni membro del gruppo agisce sulla base di considerazioni personali; è il tipico caso in cui il tutto è minore della somma delle sue parti. È una situazione che produce effetti devastanti sul morale delle persone, sia interne che esterne al team, e che purtroppo ho avuto l’opportunità di sperimentare personalmente (fortunatamente solo una volta).
  3. Potential team: in questo stadio esiste la necessità di lavorare per un fine comune e il gruppo sta in effetti cercando di migliorare le proprie prestazioni. Tuttavia, l’obiettivo non è ancora chiaro, manca disciplina e soprattutto non viene percepita la responsabilità reciproca. È una tipologia abbastanza diffusa che, per poter evolvere, necessità di una precisa definizione di obiettivi prestazionali raggiungibili solo attraverso collaborazione e impegno reciproco.
  4. Real team: è quello descritto dalla definizione. È un team che funziona e raggiunge gli obiettivi prefissati. Osservando i risultati ottenuti dal gruppo risulta evidente che essi dipendono dall’esistenza di competenze complementari, impegno collettivo e responsabilità reciproca. Ho lavorato con alcuni di questi team e la sensazione che ne ho sempre tratto è di meraviglia, quasi stupore, per la facilità con cui si comunica, si aggiusta l’approccio e si producono risultati di qualità.
  5. High-performing team: è un real team in cui ogni componente, oltre a rispettare tutte le condizioni poste dalla definizione, è profondamente impegnato nella crescita personale e nel successo degli altri membri del team. Si tratta del caso da manuale in cui i risultati superano ampiamente le aspettative legate alla composizione del gruppo. È un tipo di esperienza che ricordo di aver sperimentato solo in un caso: l’aspetto forse più evidente era rappresentato dalla grande motivazione con cui ognuno affrontava attività estremamente impegnative, anche in termini di quantità di ore lavorate, potendo al tempo stesso contare sul fatto che anche gli altri membri del team avrebbero dato il meglio, e anche di più.

Indicatori di salute del team

Credo che nessuno possa avere il minimo dubbio circa l’ottima salute del team immortalato nella foto che accompagna questo articolo (scattata alle 21:07 di un 2 luglio).

È infatti abbastanza facile riconoscere un team che funziona: basta osservare l’energia sprigionata da suoi membri, il clima allegro e sorridente, la tendenza a fare gruppo dentro e fuori gli spazi e i tempi lavorativi, l’adozione di simboli comuni, il tramandarsi di aneddoti sulle imprese del team e, soprattutto, il raggiungimento di risultati non ottenibili con la semplice somma delle competenze individuali.

E se il mio gruppo non è un team?

Esistono 2 possibili risposte a questa domanda.

  1. Forse quello che serve è solo un working group, ed è quindi opportuno creare un ambiente e delle opportunità che facilitino il reciproco scambio di idee e informazioni, mantenendo comunque obiettivi prestazionali individuali.
  2. Se invece la necessità di impegnarsi per obiettivi che non possono essere raggiunti attraverso una semplice combinazione di singole competenze è reale, allora occorre valutare se esiste la possibilità di evolvere ad uno stadio di maturazione successivo oppure se non sia il caso di rinunciare all’obiettivo e sciogliere il team.

Serve fare team building?

Se il raggiungimento degli obiettivi prestazionali richiede veramente responsabilità reciproca, impegno e approccio condivisi, allora l’utilità del team building è innegabile. Anche se in realtà fare team building non significa costruire un ponte sospeso o preparare una cena nella cucina di un ristorante (per citare solo alcune delle proposte più popolari).

Il vero team building consiste nella condivisione degli obiettivi e delle modalità da adottare per il loro raggiungimento: le migliori opportunità sono offerte proprio dalle attività necessarie a raggiungere con successo il fine che giustifica l’esistenza del team (un buon esempio è quello descritto nell’articolo sulla costruzione della WBS di progetto).

Il vero team building si fa affrontando in modo strutturato le sfide quotidiane! Condividi il Tweet

L’evento di team building

Devo comunque confessare di essere stato anch’io coinvolto nell’organizzazione di eventi di team building. Infatti, grazie all’abbinamento dell’utile al dilettevole, l’esperienza può risultare molto efficace .

In questi casi, pongo come vincolo che la parte ludica, scelta dal cliente sulla base delle proprie preferenze, sia utilizzata come espediente esplicito per produrre un output di immediato utilizzo da parte dei partecipanti. In sostanza, deve essere chiaro che, seppure con modalità diverse da quelle abituali, il gruppo sta lavorando e che da esso ci si aspetta un risultato che giustifichi l’investimento. Troppe volte mi è infatti capitato di ascoltare recriminazioni sui “soldi sprecati in attività di team building, soldi che sarebbe stato molto più rispettoso inserire invece nella busta paga”.

Così, ad esempio, la costruzione di barche di cartone (da collaudare poi in piscina) è stata gestita attraverso l’utilizzo degli stessi strumenti di project management scelti per la gestione dei progetti aziendali. Il progetto barca è stato avviato, pianificato, eseguito, controllato e chiuso con modalità identiche a quelle che i partecipanti avrebbero poi dovuto utilizzare per la realizzazione dei progetti quotidiani.

E capita anche che i partecipanti decidano di far fare il bagno al consulente…

Letture laterali

Consigli per trovare ispirazione e spunti di riflessione, attraverso letture solo apparentemente lontane dal contenuto dell’articolo.

Tracy Kidder: The Soul of a New Machine

Il mio apprezzamento per questo libro (che comunque ha vinto un premio Pulitzer) è chiaramente influenzato dalla mia storia professionale: l’ho letto d’un fiato perché mi ha fatto rivivere le mie giovanili avventure di esperto informatico in una società che progettava computer.

Perché proprio di questo si tratta: il racconto della costruzione di un high-performing team con un obiettivo ben preciso: sviluppare un mini-computer in grado di sbaragliare la concorrenza. La storia è quella vera della Data General del 1981, così come vere sono le storie delle notti insonni dei programmatori di software e degli ingegneri dell’hardware: è attraverso simili aneddoti che ricordo la mia esperienza del miglior team con cui io abbia mai lavorato.

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